Quei 134 tronchi di ulivi che guardano il monte Soratte ci dicono molte cose. Offendono il nostro sentimento, il nostro immaginario, la nostra cultura antica. La magnificenza dell’ulivo è cantata dai poeti dell’Antico Testamento, è la pianta che meglio ha rappresentato la pace, la forza, la generosità della natura.
Stefano Mancuso, che scrive e parla della grande intelligenza delle piante, ci ha spiegato che l’ulivo è certamente un unicum, un esempio nel mondo vegetale di biodiversità. Si possono scrivere pagine e pagine sullo straordinario significato e sulla ricchezza di questa pianta che bene rappresenta l’incontro fra la spontaneità, la ricchezza della natura e la scienza del contadino. Ma è bene restare ai fatti di questi giorni.
Un anno fa la Conferenza dei servizi della Regione Lazio ha autorizzato in due diverse località del comune di Gallese «l’abbattimento» di 164 piante di ulivi con l’argomento del «miglioramento» aziendale: una strage legale di ulivi. Grave è stata la richiesta dei signori delle nocciole, peraltro non stiamo parlando di contadini, di piccoli agricoltori che lottano per mettere insieme il pranzo con la cena, ma di proprietari di decine e decine di ettari di nocciole che hanno sentito il bisogno di eliminare questi ultimi ulivi con l’idea di completare l’opera della loro personale monocultura. Ma ancor più grave della ingordigia dei proprietari di nocciole è la normativa della Regione Lazio e la latitanza della legislazione nazionale.
Questa complicità istituzionale ha permesso in vasti territori della Tuscia l’abbattimento di migliaia di ulivi, un vandalismo ambientale che continua senza alcun pudore, che colpisce una coltivazione storica della Tuscia e che da sempre è una ricchezza del paesaggio, dell’economia e della biodiversità del viterbese. La Soprintendenza un anno fa, l’11 novembre del 2021, ha emesso una nota procedurale nella quale si chiede di preservare le coltivazioni storiche delle terre del viterbese quali gli ulivi e le vigne, proprio per tutelare i nostri «paesaggi agrari di valore». Una nota importante ma tardiva, perché il maggior danno è stato già fatto, e con l’aggravante di maglie troppe larghe come testimoniano le scelte recenti della Conferenza dei servizi della Regione Lazio.
Dietro questa compiacenza politica e burocratica della Regione Lazio vi è un peccato d’origine serio, ovvero l’accordo stipulato nel 2015 fra la Ferrero e la Regione Lazio, che ha previsto altri 10 mila ettari per la coltivazione del nocciolo nel viterbese.
La nocciola da sempre è un prodotto importante della Tuscia, una grande risorsa che, però, come denuncia il Biodistretto della via Amerina, rischia di trasformarsi in un gigantesco problema.
Nel viterbese vi sono 25 mila ettari di noccioleti, il Lazio è ormai il primo produttore in Italia della nocciola e in molti paesi del viterbese la coltivazione della nocciola copre più dell’80% della superficie agraria utile. In queste aree la monocultura è già una realtà e l’accordo del 2015 spinge le coltivazioni in aree non vocate, così che al danno della chimica di sintesi e dei pesticidi della monocultura si somma la liquidazione delle ultime zone di biodiversità e uno straordinario consumo di acqua che compromette i ruscelli, abbassa e inquina le falde acquifere.
Bene ha fatto la senatrice Fattori con una interrogazione al governo a chiedere un intervento, perché «le richieste di abbattimento e di espianto degli alberi di ulivo abbiano un indirizzo univoco volto alla salvaguardia della biodiversità, del clima, del paesaggio e dell’ambiente». Perché di questo al fondo si tratta. La vicenda dell’abbattimento degli ulivi, così come l’accordo con la Ferrero mettono anche in chiaro la vuota retorica che accompagna la drammatica questione del cambiamento climatico.
Si chiede ai paesi del Sud del mondo di contenere lo sviluppo economico tradizionale alimentato da energia fossile, ma in pari tempo le metropoli del Nord del mondo, i campioni della lotta al cambiamento climatico in nome dei miglioramenti, dell’efficienza e dei guadagni aziendali cancellano a casa loro le ultime isole di biodiversità.
Si realizza così quella monocultura che impone l’uso della chimica di sintesi e trasforma il suolo in una discarica chimica. La biodiversità non è un lusso, un ornamento del paesaggio, è condizione decisiva, perché si conservi il sistema immunitario della natura e quel laboratorio biochimico del suolo senza il quale è impossibile la cattura dell’anidride carbonica.
Piantare alberi e poi eliminare le ultime isole di biodiversità come fa la regione Lazio è un non senso. Lasciare in piedi conferenze di servizi che hanno il solo obiettivo di tutelare piccoli e grandi interessi economici, mentre ad altri si chiede austerità, è un monumento alla doppiezza e all’ipocrisia.
Di Famiano Crucianelli
Articolo estratto dall’inserto EXTRATERRESTRE de Il Manifesto del 19 novembre 2021